Arte figurativa

Il polittico Baroncelli e l’empireo dantesco

Artisti di ogni epoca si sono misurati con le suggestioni iconografiche della Commedia di Dante, non molti però possono vantare di aver rappresentato con successo le atmosfere luministiche del Paradiso: molto più facilmente, infatti, si possono riprodurre, aggiungendo ombre e colori, le immagini cupe dell’Inferno e quelle umanizzate del Purgatorio; più complicato è invece rendere l’idea della luce, una luce che non può essere paragonata a nulla di terrestre. Nel Trecento questa simbologia della luce poteva essere resa attraverso la decorazione delle vetrate, ma anche con il fondo dorato delle tavole dipinte, sul quale si potevano concentrare miriadi di figure di santi, angeli e cori celesti, come avveniva, per esempio, nelle raffigurazioni dell’incoronazione della Vergine.

Il presente studio si propone di “far luce” sui possibili collegamenti tra la Commedia di Dante – in particolare la terza cantica – e l’iconografia dell’incoronazione della Vergine, così com’è stata riprodotta da Giotto e dalla sua bottega nella prima metà del XIV secolo, all’interno del Polittico Baroncelli (GIOTTO E TADDEO GADDI, Incoronazione della Vergine o Polittico Baroncelli (tempera e oro su tavola, 185 x 323 cm) 1328 circa, FIRENZE, Basilica di Santa Croce).

L’opera è conservata nella basilica fiorentina di Santa Croce, all’interno della cappella della famiglia Baroncelli, luogo per cui in origine fu commissionata: essa appare come il compimento iconografico delle storie della Vergine, ciclo pittorico che Taddeo Gaddi – figura di spicco nella bottega di Giotto – ha affrescato sulle pareti della cappella negli anni successivi alla realizzazione del polittico.
Se l’opera può vantare di essere ancora in situ – un privilegio di non poco conto se si considera il destino della maggior parte delle opere ecclesiastiche amovibili -, le forme che mostra attualmente sono ben diverse da quelle di un polittico trecentesco: essa infatti è stata pesantemente compromessa nel Quattrocento, quando i restauratori rinascimentali, conformandosi allo stile dell’epoca, hanno operato una riquadratura e rimosso la cimasa del pannello centrale, oggi concordemente riconosciuta in una tavola triangolare conservata al museo di San Diego in California.

In origine, secondo alcuni studiosi, l’opera doveva presentarsi come un polittico di cinque pannelli cuspidati e una predella con altrettanti cinque scomparti, dedicati non alla narrazione di storie sacre ma, in modo più inconsueto, alla rappresentazione iconica di Cristo e di alcuni santi. All’opposto, è nei pannelli principali che si svolge la scena sacra: al centro è rappresentata l’incoronazione della Vergine, evento al quale assistono gruppi di angeli e santi, occupando idealmente lo spazio a destra e a sinistra del trono su cui siedono Cristo e Maria. Gli angeli in primo piano recano una serie di strumenti, tra cui vielle, salteri, organi e trombe, dal cui insieme si può immaginare che venga prodotta la musica più sublime mai udita da orecchio umano. Nei gruppi di santi in secondo piano si possono invece riconoscere gli antenati di Cristo: Adamo ed Eva – la donna vestita di rosso alle spalle di Maria -, Noè, Mosè, Abramo e il piccolo Isacco, ma anche i santi Pietro e Paolo. Nei pannelli più esterni, lo studioso Julian Gardner ha individuato «tutti i francescani canonizzati nel corso del primo secolo della storia dell’Ordine», in primis san Francesco, ma anche Ludovico da Tolosa, santa Chiara e santa Elisabetta d’Ungheria.

Il soggetto è relativamente recente per la storia dell’arte trecentesca, specialmente di ambito italiano: infatti, secondo la tradizione storiografica, sarebbe stato l’abate Sugerio di Saint Denis, nel XII secolo, a inaugurare questo genere di raffigurazioni, ispirandosi ai racconti del Transitus Mariae, quanto cioè veniva tramandato sulla morte della Vergine e la sua assunzione in cielo.
Nel XIII secolo queste storie vennero mutuate nella Leggenda Aurea, la grande raccolta agiografica di Jacopo da Varagine, divenuta la fonte prediletta per tantissime rappresentazioni iconografiche. Qui, nelle letture per la festa dell’Assunzione di Maria, si dice che l’anima della Vergine, prima ancora di ricongiungersi con il corpo, fu accolta da Cristo e dalla “santa schiera”, che intonò per lei dei cantici di lode. A queste lodi seguì la preghiera di un “cantore celeste”, il quale, rivolgendosi a Maria, le disse:

«Vieni sposa del Libano, vieni per essere incoronata!». E Maria rispose: «Ecco, io vengo perché di me è stato scritto che debba fare la tua volontà, o Signore, e il mio spirito esulta in te!».
(Legenda Aurea)

Dopo queste parole, nel racconto del vescovo ligure, l’anima della Vergine fu «collocata sul trono della gloria, alla destra di Gesù Cristo».
La descrizione di questi eventi passati voleva evidentemente dotare l’umanità medievale di un repertorio immaginifico sulla dimensione paradisiaca, quale realtà da concepire in parallelo alla propria esistenza terrena. Allo stesso tempo però, il tema dell’incoronazione della Vergine, perché collegato al mistero della sua assunzione, preludio alla resurrezione di tutti gli esseri umani, trovò spazio non solo nelle narrazioni della realtà paradisiaca presente, ma anche nelle raffigurazioni del Giudizio finale, divenendo addirittura l’iconografia prediletta per la rappresentazione del compimento universale.
Questa sottolineatura escatologica potrebbe non essere del tutto estranea neppure al Polittico Baroncelli, il cui intento primario, come già accennato, era quello di concludere la narrazione delle storie della Vergine, ma che allo stesso tempo, potrebbe aver integrato la prospettiva degli ultimi tempi, e potrebbe averlo fatto in una modalità che ricorda la poetica dantesca.

Una prima corrispondenza fra l’iconografia del polittico e l’empireo dantesco può essere suggerita dalle figure centrali della Madre e del Figlio.
Nel Polittico Baroncelli Cristo e la Vergine siedono sopra un ampio trono e si rivolgono l’uno all’altra: il Figlio divino posa la corona sul capo della Madre mentre lei si piega verso di lui, con lo stesso atteggiamento accogliente mostrato in tante iconografie medievali di annunciazione. Infatti, come giustamente ha notato Massimiliano Rosito, la Vergine «riceve dal Figlio  la  corona  di  gloria,  per  l’umiltà  obbediente  con  cui  lo  ha  accolto  nel  suo grembo». 

Madre e Figlio naturalmente si somigliano e questa somiglianza viene ancora più evidenziata dalle caratteristiche degli abiti che indossano: sia Gesù che Maria mostrano la medesima veste bianca con ricami dorati, alla quale è appuntato un mantello rosa, costellato anch’esso dai tratti dorati dei motivi vegetali. Tale rispondenza di colori, in mezzo all’armonia cromatica del polittico, può avere una ragione che esula il mero piacere estetico per la composizione. Infatti, nel XXXII canto del Paradiso, quello che meglio descrive la glorificazione di Maria tra gli angeli e i santi, troviamo nelle parole di san Bernardo, un invito a cogliere proprio la somiglianza tra Cristo e la Vergine:

Riguarda omai ne la faccia che a Cristo
più si somiglia, ché la sua chiarezza
sola ti può disporre a veder Cristo.

(Paradiso XXXII)

È dunque a Maria che Dante deve guardare per disporsi alla visione di Cristo. Il poeta infatti, rispondendo alla sua guida, non poté far altro che constatare lo splendore di Maria; uno splendore che più di qualunque altro si accosta a quello di Dio.

Io vidi sopra lei tanta allegrezza
piover, portata ne le menti sante
create a trasvolar per quella altezza,
che quantunque io avea visto davante
di tanta ammirazion non mi sospese,
né mi mostrò di Dio tanto sembiante.

(Paradiso XXXII)

Questo probabile riferimento del polittico giottesco alla Commedia di Dante potrebbe accompagnarsi ad un’altrettanto plausibile lettura dantesca dell’enigmatica cimasa di San Diego, raffigurante l’Eterno e angeli.
Il triangolo dorato, i cui lati misurano una settantina di centimetri, reca alcune figure che, ad un’attenta osservazione, rivelano dei particolari interessanti al fine di riconoscere l’influenza dantesca sul polittico. Al centro, iscritta in una cornice a compasso, è raffigurata l’immagine di un Vegliardo: questo personaggio, prima ancora di ricordare l’effige di Dio Padre, allude forse all’iconografia del Vedente apocalittico, il Giudice divino a cui sono accostati gli attributi del libro aperto con le lettere alfa e omega, lo scettro e un virgulto. Alla sua destra e alla sua sinistra sono disposti, a gruppi di tre, sei angeli, coinvolti nella visio Dei, una visione talmente luminosa che pare addirittura intollerabile ai loro occhi: due di essi infatti si proteggono dietro ad un oggetto filtrante – forse uno specchio, una lente o un vetro oscurato -, mentre gli altri quattro si ombreggiano la fronte con una mano.

In un articolo del 2006, Andrea De Marchi ha accostato questa particolare iconografia del Vegliardo e dei sei angeli, alle atmosfere del paradiso, così come descritto da Dante nella Commedia.
Secondo lo storico dell’arte, nel Polittico Baroncelli vi sarebbero delle suggestioni

ricavate dalla lettura del Paradiso dantesco, tutto costruito sul primato della visione di Dio rispetto all’emanazione della carità, e nel quale ricorrono le immagini di una luce così forte che la vista umana non può dapprincipio sostenerla, ma che il poeta ha il privilegio di penetrare (De Marchi).

Nel XXX canto della Commedia infatti, lo stesso Dante racconta di essersi trovato completamente abbagliato dalla luce, ma grazie a Beatrice, che lo ha introdotto ad una visione graduale, il poeta ha potuto comprendere ciò che gli si poneva di fronte.
Se la poesia è riuscita in qualche modo ad addentrarsi nel mistero della luce, lo stesso non si può dire dell’arte figurativa: secondo De Marchi, nella particolare gestualità degli angeli attorno all’Eterno, Giotto avrebbe dissimulato una deliberata rinuncia di fronte all’utopico tentativo di rappresentare la luminosità di Dio,

solo le reazioni degli angeli possono alludervi indirettamente […] Le grandi lenti forse sono lenti affumicate che filtrano la luce troppo forte, ma al tempo stesso indicano la natura immateriale e perciò divina della luce, che si esalta nella penetrazione istantanea del vetro (De Marchi).

Nella lettura di De Marchi dunque, l’escamotage degli angeli attorno all’Eterno servirebbe ad affermare, per una sorta di via negationis, lo splendore ineffabile della luminosità divina; tuttavia, una lettura degli ultimi canti della Commedia attorno all’idea degli “specchi”, potrebbe suggerire un’altra interpretazione.

Anzitutto è necessario fare alcune precisazioni sul valore della luce nell’immaginario del poeta fiorentino: per Dante la gloria divina è rappresentata dall’immagine del «divinum lumen», la fonte dalla quale deriva tutto ciò che risplende. Infatti, come scriveva Natalino Sapegno, la luce di Dio «penetra, si diffonde e risplende, si manifesta in tutte  le  cose  perché  ciascuna  deriva  la  propria  esistenza  e  l’essenza  che  l’informa  da Lui».
Questa luce però non arriva ovunque in modo diretto, piuttosto si propaga grazie alla rifrazione: vi sono infatti creature che, essendo più vicine alla sorgente, ne godono più direttamente di altre; allo stesso tempo esse fungono da specchi, perché questa luce possa rifulgere nuovamente verso altre creature. È il caso dei Troni, quelle intelligenze celesti che Dante chiama propriamente «specchi», mediante i quali «refulge a noi Dio giudicante», si riflette cioè la luce di un Dio il cui giudizio è pervaso dalla misericordia e dalla carità.
È interessante notare che questi “specchi”, cioè i Troni, vengono accostati da Dante alla particolare all’immagine del Giudice divino, secondo quella che era un’opinione diffusa fra i teologi medievali, i quali consideravano questa gerarchia angelica una manifestazione del Dio giudicante.
Tutto questo potrebbe suggerire che gli angeli raffigurati nella cimasa del Polittico Baroncelli, qualora si riferissero effettivamente alle immagini del paradiso dantesco, non stiano semplicemente guardando Dio ma, mediante l’attributo dello “specchio”, ne stiano riflettendo la luce misericordiosa a tutta l’assemblea di angeli e santi, finanche a raggiungere noi spettatori, quasi a volerci ricordare il nostro essere illuminati dalla divina carità, in vista del Giudizio finale.

E cosa poteva fare lo spettatore del Trecento di fronte a tutto ciò? Cosa possono fare i fedeli oggi, se non imitare l’atteggiamento della Vergine? Colei che, riempita di grazia, ha accolto dentro di sé il dono del Figlio di Dio; lei sola può disporre, come ricordava Dante, alla visione di Dio stesso:

perché tu ogne nube li disleghi
di sua mortalità co’ prieghi tuoi,
sì che ‘l sommo piacer li si dispieghi
.
(Paradiso XXXIII)

Barbara Bianconi

BIBLIOGRAFIA:
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GIOTTO E TADDEO GADDI, Eterno e Angeli (tempera e oro su tavola, 76,6 x 71,1 cm) 1328 circa, SAN DIEGO, San Diego Museum of Art.

Fonte immagini: Wikimedia Commons